Cosa ho imparato da 5 anni di lavoro in proprio.

Tra qualche giorno saranno 5 anni che ho la partita iva. È pazzesco, vero? 5 anni.
Fino a una quindicina di anni fa pensavo che aprire la partita iva fosse una cosa per coraggiosi davvero, gente con le palle che diventa dannatamente ricca.
Avevo in testa da anni di aprirla, ma mi sono sempre crogiolata nel mio lavoro da dipendente (precario comunque), dicendomi che prima o poi avrei preso una decisione. Balle. Lo stipendio che arriva preciso ti permette di organizzarti spese, vacanze e sfizi senza pensarci troppo.
Poi un giorno ti dicono che il tuo è il contratto più debole, devono tagliare e tu sei la prima a saltare. Ops.
È stato proprio in quel momento lì che ho capito che il lavoro da dipendente non era fatto per me, per tanti motivi. È stato in quel momento che ho pensato seriamente al lavoro in proprio come a un qualcosa di realizzabile. E, soprattutto, qualcosa da farfalle nello stomaco. Nel frattempo ho fatto pure due colloqui, perché avevo mandato il CV nel periodo incertezza post “ci dispiace, sei la prima a saltare”. Ma niente, li ho boicottati (credo si dica autosabotaggio).
Paura di che?
Le farfalle nello stomaco sono un misto di paura ed eccitazione, proprio come quando stai per vivere qualcosa di talmente pazzesco che non stai nella pelle e allo stesso tempo vorresti scappare. Un po’ come quando vivi il primo appuntamento con quella persona che ti piace tanto, quando stai per presentare un progetto strafico e sai che farà la differenza, quando stai per salire su un palco per raccontare qualcosa di davvero straordinario.
Il commercialista è il tuo migliore amico
(e a volte lo sposi. Ma questa è un’altra storia*)
La prima cosa che ho fatto è stato farmi i conti in tasca con il commercialista. Non quello che sposato, ma quello con cui ho iniziato. Il commercialista deve piacerti, punto. Nel senso che deve scattare la fiducia e una relazione continuativa. Non è solo quello che ti fa pagare le tasse, ma è quel professionista che ti consiglia, ti aiuta a prendere decisioni importanti, quello che parla la tua lingua perché tu possa capire davvero ogni cosa.
Ho fatto delle valutazioni e mi sono fatta queste domande:
- quanto sarei sopravvissuta con i risparmi, la liquidazione, continuando a pagare il mutuo (avevo comprato casa da qualche anno) e a mangiare?
- Quanto avrei dovuto guadagnare ogni mese per sopravvivere al netto di quello che andava in mutuo e spese fisse?
L’ho riempito di domande: la differenza tra un’attività professionale e una di impresa, i codici Ateco, e tanti altri dubbi che mi riempivano di incertezza.
E solo dopo abbiamo fatto delle valutazioni sul regime fiscale: minimi, nuove realtà produttive (potrei sbagliarmi, non me ne vogliano gli amici commercialisti, eh) o il tanto temuto regime ordinario. Di nuovo, fatti due conti e “non voglio avere problemi” decido per l’ordinario. Urca.
Dopo ho fatto un business plan, anche grazie allo sportello impresa gratuito che la Provincia aveva aperto per chi, come me, voleva iniziare a lavorare in proprio. La ritenuta d’acconto non l’ho nemmeno presa in considerazione. Non ho mai amato le vie intermedie e poi ho pensato: come ci vivo con 5000 euro all’anno? Scherziamo? Se dovevo iniziare una cosa nuova volevo farla partendo con il piede giusto.
Il business plan ti serve davvero
No, non è una cosa da fare alla leggera. Serve per capire se la tua attività può reggere, serve per fare previsioni, analisi, conti, darsi degli obiettivi e creare strategie di breve e medio termine. E, cosa non da poco, serve per capire se la tua idea imprenditoriale ha delle fondamenta o se il successo è solo nella tua testa (un conto è dire “ho la passione per qualcosa, magari a qualcuno interessa”, un altro “so fare questa cosa e pure bene. Vediamo se è fattibile e può essere utile a qualcuno”).
Avevo bisogno di concretezza, di consigli sensati, di persone vicino, perché con i soldi a disposizione (i miei risparmi) dovevo avviare l’attività, sopravvivere, pagare il mutuo e le bollette e togliermi anche qualche soddisfazione, no?
Quindi, di conseguenza tutte le altre scelte. Apriamo? Apriamo.
E poi il 24 aprile arriva la mail con la visura e il numero di partita iva. È fatta, mi dicevo. Ci siamo, ora si comincia davvero.
Il primo anno di attività va alla grande: guadagno un sacco di soldi. Due progetti grandi, annuali, lavoretti in giro, inizio a farmi conoscere in zona, giro e conosco gente, sempre in zona.
Attenzione, attenzione: è dal secondo anno di attività che capisci se tutto funziona davvero. È l’anno in cui paghi le tasse dell’anno prima, gli anticipi per quello in corso, più tutto il resto. Io mi sono fatta fregare, nonostante il business plan e i migliori propositi. Eh.
Cosa ho imparato: chiedere aiuto e programmare sempre.
Essere specifico paga (anche le bollette)
All’inizio offrivo tantissimi servizi: tutti quelli che i miei clienti mi chiedevano. Prendevo tutti i lavori che arrivavano anche quelli mal pagati, quelli che “ti pago appena incasso”, “ti va bene la visibilità”. Una volta uno mi ha proposto un pagamento con buoni pasto. Giuro, è successo. E forse è stato proprio in quel momento lì che ho pensato che dovessi aggiustare il tiro. Ho scelto cosa vendere, il prezzo di quanto vale il mio lavoro, cosa non fare più, come mi piace lavorare e con chi.
Non offrire una gamma di servizi a 360 gradi, ma sii specifico. Scegli cosa vuoi fare davvero e offri servizi che siano utili alle persone. A questo proposito, sto cancellando alcuni dei mei servizi, altri li sto rimodulando (di nuovo, sono in work in progress, tanto per cambiare) proprio in funzione del mio cliente ideale, che non sono io.
Cosa ho imparato: chiediti sempre cosa puoi fare per le persone che hanno bisogno di te.
Investi nelle cose importanti
Le cose importanti su cui investire per me sono due: la formazione e consulenze e servizi professionali che scelgo per migliorare e far crescere il mio lavoro per i miei clienti. Di nuovo, sono le persone che mi scelgono (e quelle che mi sceglieranno) a darmi la direzione sulle cose che devo fare sempre meglio per essere utile a loro.
Ogni anno decido quanti soldi investire in formazione (corsi, libri, eventi) e in consulenze e servizi esterni (che significa chiedere aiuto sulle cose che non posso fare da sola): sono la parte più consistente delle mie spese e il maggiore ritorno sull’investimento. Mi aiutano a crescere, mi danno la direzione, mi fanno riflettere e migliorare.
Cosa ho imparato: non puoi sapere tutto, quando non sai chiedi una consulenza a pagamento. E non smettere mai di studiare e formarti.
Personal branding e brand identity
La mia vita da freelance è nata anche da qui. Dopo il business plan (o meglio, con) ho lavorato per la mia identità di brand. Sono partita da me, da chi sono, cosa faccio, come lo faccio e perché.
Ho continuato a farmi delle domande, ho cercato aiuto e conferme in chi aveva già iniziato prima di me e, per fortuna, sono capitata nel corso di Luigi Centenaro sul personal branding. Una svolta. Ho avuto finalmente chiaro che le cose che sapevo davvero fare bene sono quelle con le quali avevo iniziato (scrittura e strategia), ho riscoperto il mio valore e con chi (e per chi) lavorare (e con chi mai più).
Ormai lo so raccontare a menadito e sai perché? Perché ci ho lavorato tantissimo. E non ho fatto tutto da sola, mi sono fatta aiutare. Ho pagato qualcuno che lo facesse al mio fianco, perché da sola non ci sarei riuscita mai. Quando sei da sola te le canti e te le suoni. A distanza di 5 anni qualcosa è cambiato, è vero. Ma l’essenza della mia identità è la stessa: i valori, la visone del futuro, la strategia e l’anima sono le stesse di 5 anni fa, solo più grandi.
Cosa ho imparato: che un logo non fa un brand.
Fai accadere le cose (con le persone)
È tutta qui l’essenza. Le persone con le quali lavoro, con le quali piango e con le quali costruisco cose, progetti, corsi; Persone con le quali mi diverto anche, persone con le quali la mia vita non sarebbe la stessa. Sono i miei clienti, sono i colleghi, sono i miei collaboratori.
Cosa ho imparato: costruire relazioni solide, generare valore.
Cadi, rialzati e ricomincia a correre.
Cadere significa fallire e pure fermarsi. L’importante è sempre rialzarsi dopo aver imparato la lezione. E riprovarci, sempre. Dopo aver sconfitto il drago lo sai anche tu di non essere la stessa persona di prima. E allora, smetti di raccontare come hai sconfitto il drago e vai a sconfiggerne altri con la tua nuova forza.
Cosa ho imparato: le sbucciature si trasformano in sbocciature.
*Paolo ed io ci siamo sposati nell’ottobre del 2013 e solo allora è diventato il mio commercialista. Ne parlerò in un post dedicato.